L’abusato, mal-usato, confondente e ormai desueto termine “bigenitorialità”

Nel nostro paese, abbiamo il brutto difetto di parlare tanto, ma tanto… e senza avere le idee chiare, né chiari i concetti oggetto della conversazione. Le parole non sono altro che un insieme di lettere e suoni a cui assegniamo un significato. E, se il significato è lo stesso per tutti, possiamo usarle per “parlare” con un altro, quello ci capisce e risponde. E la discussione va avanti. Se invece non ci siamo accordati sul significato di quell’insieme di lettere, le parole sono le stesse ma la discussione non va avanti. Non ci si capisce. Troppo spesso chi parla non ha ben chiaro il significato di una parola, ma parla lo stesso! Col risultato di confondersi e far confondere. A quel punto vien fuori un caos. Chi parla da una parte, chi da un’altra usando le medesime parole ma con significati diversi. A quel punto la parola è finita! È morta, non serve più. È stato questo il destino della parole “eutanasia” o di “cure di fine vita” ed è anche il destino della parola “bigenitorialità”. Questo termine inizialmente si riferiva al diritto di un bambino ad avere due genitori, un maschio ed una femmina, visto che la natura o il buon Dio hanno deciso così. Ogni bambino ha un babbo ed una mamma, e, se possibile, deve potere usufruire di entrambi, costruendo con entrambi relazioni stabili, fondamentali per tutta la sua vita, anche dopo la morte dei genitori. E su questo, direi, ci dovrebbe essere consenso! Poi, piano piano, con l’ipocrisia tutta italiana, siamo scivolati verso un utilizzo di questa parola con tutt’altro significato: il  diritto di un genitore, generalmente il padre, a “vedere “ il figlio e stare con lui. Fino a ribaltare totalmente un diritto in un dovere per cui, se un bambino non vuole vedere il padre, può venir costretto anche con la forza, in nome proprio del suo (del padre) diritto alla bigenitorialità. Si capisce come le cose così non possano andare avanti. Un diritto non può essere imposto per legge, deve essere offerto, mai imposto. Ed un bambino che non vuole usufruire di quel “diritto” in quel momento storico della propria vita deve poterlo fare senza minacce, costrizioni, violenze. Viceversa il “dovere alla bigenitorialità” appartiene ad entrambi i genitori e, a mio parere, si esplica nel favorire l’apertura all’altro genitore, l’accesso del figlio a questi, nel portare il necessario rispetto. L’unico aspetto che vedo come “diritto alla bigenitorialità” dei genitori è quello relativo ad un fatto del quale nessuno parla mai, ma mai! E cioè il diritto ad avere un co-genitore che si prenda cura di tuo figlio, al quale si possa delegare un po’ delle cure, sul quale gravino gli stessi doveri che ha il genitore con cui il figlio vive.

Ho volutamente pubblicato il precedente articolo intitolandolo “sul diritto alla bigenitorialità dei genitori”, proprio per parlare di questo.
Tante, tantissime volte il genitore cosiddetto “collocatario”, generalmente la madre, è gravato di tutto il peso della cura del figlio: dalla mattina alla sera, di giorno e di notte, d’estate e d’inverno, per i problemi della scuola, del tempo libero, della parrocchia, le amicizie, le inimicizie, le malattie, le vacanze estive, il lavare, pettinare, cucinare, cucire etc etc. Questo genitore, generalmente la madre, ma se il caso, anche il padre, ha il sacrosanto diritto di “andare in ferie” ogni tanto,  di essere un attimo sostituito, di pensare un attimo a sé stesso. Si è mai pensato a quanto il genitore collocatario è gravato, da solo, e quasi sempre da solo e sempre più da solo negli anni a venire, delle cure del figlio?

In sintesi: la parola bigenitorialità è termine abusato e da gettare.

Essa esprime un diritto e non un dovere per il bambino, che non va imposto, ma solo offerto;

è sostanzialmente un dovere per entrambi i genitori che non possono auto-sospendersi dai doveri di cura, primo tra tutti quello del sostegno economico, poi delle cure e dell’amore e che devono favorire l’accesso del figlio all’altro;

è, infine,un diritto per il genitore che ha la custodia del figlio, in termini di diminuzione del carico e degli oneri della cura del bambino.